Morte, guerra, spari, odio, certamente motivi di dispiacere. E' utile, comunque, riportare anche notizie differenti da tutte quelle che, la quasi totalità anche in Italia, additano Israele sempre, e per ogni occasione, come la colpevole, senza merito di appello, di ogni momento critico che la riguarda...
Il gioco è facile, e questo ovviamente non avviene solo nel caso d'Israele, è sufficiente sottolineare con maggior enfasi qualche frase, utilizzata magari inopportunamente, e l'agredito diventa l'agressore, la vittima diviene il carnefice.... etc...
 
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Ma perché non li fate passare, i poveri "manifestanti", come dice il Corriere? Perché non li lasciate "dimostrare"? E, già che ci siete, perché non fate passare la povera flottiglia, che vuol solo "portare aiuti umanitari" ai palestinesi?
Già, perché? Ci sono motivi legali: la legge internazionale è chiara e un po' cinica, un blocco navale è legale finché vale per tutti, se si fanno preferenze, anche per i bravi "volontari" della flottiglia, non è più un blocco, non vale più.

Ci sono motivi politici: è chiaro che Assad sta cercando di distogliere l'attenzione dalle sue stragi, mandando dei disgraziati male armati (non disarmati, si sono visti fucili e usate bombe molotov) sui campi minati e contro un confine sorvegliato militarmente.

Ma soprattutto, c'è una necessità esistenziale di bloccare i bravi manifestanti. Se i 60 milioni di italiani decidessero di "riprendersi" la Slovenia (2 milioni), che è stata tutta territorio italiano fra le due guerre, mandando folle a forzare la frontiera fra Trieste e Gorizia, secondo voi come reagirebbero i pacifici sloveni? E se decidessimo che il Ticino è italiano, perché parla la nostra lingua, e facessimo "pressione" di massa (Michele Giorgio sul "Manifesto" di ieri), i pacifici svizzeri non si difenderebbero? Ogni Stato difende le sue frontiere, normalmente con barriere fisse ("muri dell'apartheid", se volete), polizia, finanzieri. In caso di aggressione, con l'esercito. Tutte le guerre del mondo sono nate perché uno stato ha invaso le barriere dell'altro, non importa se con un esercito organizzato o con manifestazioni poco armate. Per il diritto internazionale quel che è successo ai confini della Siria ieri e venti giorni fa fra Siria e Libano è un legittimo "casus belli".

Ma c'è di più. Lo svantaggio strategico principale di Israele è di essere uno stato molto piccolo (grande poco più del Piemonte), abitato da 7 milione di persone, in mezzo a paesi molto più grandi, con centinaia di milioni di abitanti. Gli manca ogni "profondità strategica". Tutti i confini sono vicini alle grandi città. Non è possibile una risposta elastica. E se funzionasse anche solo un po' la tattica di mandare folle più o meno disarmate a invaderlo, che adesso tentano i nemici di Israele, sarebbe facile mandare milioni di egiziani o di iracheni o di algerini a sommergerlo e distruggerlo.

Perché l'obiettivo è proprio questo, sempre quello dal 1948, distruggere lo Stato ebraico, ricacciare in mare (cioè ammazzare) gli israeliani. Non costruire uno Stato palestinese, che non importa nemmeno ai palestinesi (); ma espellere quello che qualche mese fa un bravo vescovo cattolico, monsignor Edmond Farhat ex nunzio in Libano, ha brillantemente definito "un corpo estraneo", "non assimilato" al Medio Oriente ().

Ultima considerazione: avete visto una reazione europea a una palese e premeditata violazione dei confini israeliani, a un chiaro attacco alla sua esistenza? Niente, zero. C'è stata una dichiarazione dell'amministrazione americana, che si dice "turbata" e invita "le due parti" a mostrare ritegno, insomma a non rompere. Punto. Si può sentire Israele difeso dalla comunità internazionale? Può sentirsi sicuro a far la pace con un governo (quello dell'Autorità Palestinese) che ha organizzato le stesse manifestazioni a Gerusalemme? E' chiaro che no. Diciamolo una volta per tutte. Israele è sola, la sua sicurezza è affidata alla forza delle sue armi, alla determinazione dei suoi cittadini e governanti. E alla nostra solidarietà.

(Informazione Corretta, 6 giugno 2011)

alex

Celebrare le sconfitte?

di Donatella Di Cesare

È difficile capire perché mai dovrebbe far parte delle date da ricordare l'anniversario di una sconfitta militare. A dir vero è sgradevole e irritante già la celebrazione delle vittorie, perché rinvia alla guerra passata. Che quest'anno i palestinesi abbiano per la prima volta condiviso l'uso siriano di commemorare la data della Naksa, il giorno della «sconfitta» - che dovrebbe esibire un nesso di continuità inammissibile con la Nakba - è un segnale inquietante.
Tanto più che la sconfitta è stata l'esito di una guerra non subita ma, al contrario, inflitta. Nella Guerra dei Sei giorni - occorre ricordarlo - Israele fu attaccato dagli Stati arabi: Egitto, Siria, Giordania, Iraq. E fu costretto a vincere. Si trovò improvvisamente nel Sinai e a Gaza, sulle alture del Golan, in Cisgiordania, a Gerusalemme. In sei giorni mutò in modo radicale il paesaggio geopolitico del Medio Oriente.
Le notizie degli scontri lungo i confini dello Stato di Israele - notizie che rattristano profondamente chi guarda con speranza alla pace - pongono molti interrogativi. E in primo luogo fanno pensare a un ruolo decisivo della Siria il cui regime dittatoriale ha molto da guadagnare distogliendo l'attenzione dai problemi interni e indirizzandola verso la frontiera con Israele. Gli scontri, un dramma in cui si consuma un uso politico dei palestinesi, sembrano però anche voler rimarcare i confini del '67 gettando l'ombra di un ritiro forzato.
In tutto ciò resta un punto decisivo da cui non si può prescindere. Israele è uno Stato sovrano, la cui sovranità deve essere esercitata, purtroppo, anche nella difesa delle frontiere. Che cosa farebbe uno Stato europeo se fosse attaccato?
Le notizie che vengono fornite in questi giorni, dalla stampa italiana, ma anche da quella europea, sono spesso introdotte da preamboli inaccettabili: «il giorno della rabbia palestinese…», «David contro Golia» (Golia sarebbe Israele), ecc. Piuttosto che riassumere gli eventi, riandare al passato, offrire il contesto storico, quello della Guerra dei sei giorni, si inseriscono giudizi che tradiscono l'intolleranza verso lo Stato di Israele la cui sovranità sembra di fatto non essere riconosciuta. Questa disinformazione, inconsapevole o strategica, non passa senza lasciare danni. E ha la responsabilità di contribuire ai conflitti.

(Notiziario Ucei, 6 giugno 2011)
Inviato da alex il

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