Abbiamo accennato che nei primi secoli dopo la venuta di Cristo, il corpo della chiesa non sentiva la necessità di porsi la domanda ecclesiologica sulla diversità della dottrina Cristiana, in quel tempo infatti gli apostoli predicavano il vangelo nella viva affermazione della Parola di Dio.

Entriamo nel vivo di questa affermazione analizzando la scrittura del Nuovo Testamento e in particolare gli atti degli Apostoli. I più antichi documenti scritti del Nuovo Testamento di cui noi disponiamo, sono le lettere di Paolo, redatte attorno agli anni 50 del primo secolo d.C.. Con le sue lettere l'apostolo Paolo rappresenta un’eccezione nella cristianità del suo tempo: è l'unico "cristiano" della sua generazione del quale abbiamo conservato degli scritti.

Gesù stesso non ha lasciato alcun scritto e, come lui, le altre figure apostoliche della prima generazione cristiana (loro aspettavano presto la venuta di Cristo “vedi parusia” e quindi la necessità di scrivere non era molto sentita). Parole e azioni di Gesù saranno scritte soltanto dopo la morte degli Apostoli (Paolo, Giacomo, Pietro, ecc.) avvenuta probabilmente negli anni 60 del primo secolo.

Nella seconda e nella terza generazione cristiana si svilupperanno delle tradizioni scritte accanto alle tradizioni orali. Quindi come sin qui detto, la chiesa viveva nell’intensità del messaggio di Cristo, e non sentiva alcuna necessità di riconoscersi se non unicamente nella sua natura di comunità di fratelli e sorelle uniti nello spirito del Signore.

Ma avvenne qualche secolo dopo, e precisamente intorno all’anno 363 D.C. che la chiesa occidentale forzò il passo della riflessione teologica, incentrando e giustificando il dibattito (forse mossa da un progetto che vedeva poi il suo fine quello di cercare di realizzarsi quale unica autorità ecclesiale) sulla natura della chiesa, vediamo insieme l’evolversi.Una delle prime più accanite controversie fù la cosiddetta “controversia donatista”.

Sotto l’imperatore Diocleziano (284-313), la chiesa cristiana dovette subire vari gradi di persecuzioni. Gli inizi delle persecuzioni Romane sono databili intorno il 303, e la fine coincise con la conversione dell’Imperatore Costantino e esattamente con l’emanazione dell’editto di Milano del 313. Sotto il dominio dell'imperatore Diocleziano, nell’anno 303, si ordinava di bruciare i libri cristiani e di demolire i luoghi di culto (chiese). I responsabili cristiani che consegnavano i loro libri per essere bruciati venivano risparmiati dalla persecuzione è furono chiamati “traditores” ossia “coloro che avevano consegnato i libri”. Uno di questi “traditores” fù: Felice di Aptunga, il quale successivamente, nel 311, consacrò Ceciliano di Cartagine Vescovo appunto di Cartagine (dal 311 - m. dopo 340) la cui elezione, fu fortemente contestata da molti Cristiani i quali si ritennero gravemente offesi, per il fatto che una tale persona (stiamo parlando di un “traditores” colui che aveva rinnegato la fede consegnando i libri) potesse ancora consacrare.

Questa situazione portò al risultato di non poter accettare l’autorità di Ceciliano come capo di una chiesa, e pertanto, si accese una grande contestazione giustificata che molti cristiani dell’epoca desideravano conservare la chiesa integra e pura, e pertanto non poteva assolutamente essere condotta da un Vescovo consacrato da una persona ritenuta un traditore della fede. Aspetti sociologici quindi turbavano la chiesa, e il dibattito teologico prese espressione fino a ridurre la chiesa in fazioni.

Da una parte i donatisti cercavano il sostegno della chiesa del luogo e del suo popolo (africa del nord) mentre i cattolici, ossia il resto delle chiese si avvalsero del sostegno dei coloni romani presenti in quel luogo. Un ruolo importante venne assunto dall’Imperatore Romano Costantino nell'ambito della chiesa cristiana (ad esempio tramite la convocazione di concili e il presiederne i lavori) la sua condotta fu determinante anche per gli scismi.

Egli nonostante mantenesse la carica di pontefice massimo della religione pagana; carica che era stata di tutti gli imperatori romani a partire da Ottaviano, nell’anno 325, convocò a Nicea il primo concilio ecumenico che egli stesso inaugurò, per risolvere la questione dell'eresia Ariana, (Ario un prete alessandrino, il quale sosteneva che Gesù non era della stessa "sostanza" del padre).

Ma la vera politica di Costantino mirava ha creare una base salda per il potere imperiale Romano nella stessa religione cristiana, la quale era importantissima per la questione politica. Quindi L’affermazione del potere Romano, era nel suo progetto e per questo motivo, pur non essendo battezzato, indisse diversi concili come "vescovo di quanti sono fuori della chiesa". Il primo fu quello convocato ad Arelate (concilio di Arles), in Francia nel 314, che confermò una sentenza emessa da una commissione di vescovi a Roma, che aveva condannato l'eresia donatista, intransigente nei confronti di tutti i cristiani che si erano piegati alla persecuzione dioclezianea.

E’ interessante qui evidenziare che nei primi quattro secoli i centri importanti della Cristianità erano Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme e Roma. Tuttavia, con la politica di Costantino, stava diventando sempre più chiaro che Roma in quanto centro dell’impero Romano iniziava ad assumere una politica dominante e sempre più preminente nell’ambito del Cristianesimo, infatti il termine Papa, dal latino “Padre”, venne inizialmente attribuito ad ogni vescovo, ma gradualmente giunse ad essere utilizzato sempre e soltanto per indicare il Vescovo di Roma.

Scopriamo il perché: La storia nasce non solo dall'affermazione della politica Costantiniana ma si afferma poi sostanzialmente attraverso un ampio dibattito Cristologico avvenuto intorno il V secolo, quando Nestorio e Cirillo di Gerusalemme non trovando una soluzione su una questione Teologica, accorsero entrambi al sostegno e al parere del vescovo di Roma. Ma questo appello, demandato per risolvere una disquisizione teologica non voleva affatto promuovere la sovranità del vescovo di Roma sulle altre chiese, le quali non essendo interpellate ne rimasero turbate, peraltro loro sostenevano che nessun fondamento teologico dava a Roma tale potere da essere chiamata a dichiararsi unico giudice sulle questioni della chiesa, ma altri poi non ne furono così sicuri anche perché temevano la reazione della Roma Imperiale la quale altrimenti si sarebbe sentita lesa nella sua natura ideologica e imperante.

Fu in questo contesto che per giustificarne il senso teologico del potere del vescovo di Roma, si considerò di fondamentale importanza giustificarne la sovranità attraverso l’interpretazione del versetto (16;18) del Vangelo di Matteo. In questa fase di interpretazione delle scritture, si realizzò che Il Vescovo di Roma era quindi il successore di Pietro, il quale era stato martirizzato a Roma, da qui si diffuse presto questo pensiero. Quindi l'autorità spirituale di Pietro era trasmessa ai vescovi di Roma perchè suoi successori.

Questo problema suscitò ulteriori spaccature tra la chiesa di oriente e quella di occidente e sarebbe tornato nuovamente alla ribalta in molti frangenti nella storia della chiesa, di cui la riforma è un esempio particolarmente evidente.

Ma questo lo vedremo più avanti anche dal punto di vista esegetico.

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