Si stava bene sulla montagna accanto al Maestro trasfigurato, ma bisogna scendere in pianura, dove gli indemoniati sono contorti dalla sofferenza, dove anche i discepoli pregano male e non ottengono più nulla (Matteo 17:14-21)

Il tempo della vittoria non è ancora giunto. L'alba spunta lontano e scorgo l'orizzonte aureolato della gloria a venire, ma la strada che mi ci conduce è ancora avvolta d'ombra e piena di ostacoli. Pellegrino tutto impolverato, dalle scarpe scalcagnate, tutto il mio essere si protende verso quella luce, il cui lontano riflesso illumina già i nostri volti stanchi. Ma, andiamo avanti! Non siamo ancora alla fine delle nostre pene.

Ho la vita: ne sono profondamente cosciente da certi sussulti del mio cuore, da certi trasporti d'allegrezza, dalla testimonianza della coscienza. Ma la mia gioia non è perfetta. Ben presto lo sarà, ma non ancora. Aspettare, sempre aspettare!
«Fino a quando, Signore?» (Salmo 94:3).
Non siamo soli a languire per l'attesa.
«Tutta la Creazione geme... anche noi stessi gemiamo in noi medesimi aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché noi siamo stati salvati in isperanza» (Romani 8:22-24).
Non si crede più completamente all'ottimismo degli architetti del ventesimo secolo. I palazzi pieni di comodità, che s'innalzano da ogni parte, ci sedurranno alla vita facile di quaggiù? La nota che si libra oggi sulla terra -sulla piazza delle borgate come nelle grandi città, nelle belle ville di periferia e sulle scale rumorose delle case popolari, all'uscita delle fabbriche e in fondo ai negozi -quella che domina il rumore delle macchine, delle automobili e dei treni serali, quella che copre tutte le nostre grida, le nostre minacce e le nostre rivendicazioni, è una nota impastata di lacrime, una nota che geme su di un fondo di amara malinconia: è un immenso gemito.

Dispiacere dei beni perduti, di affetti distrutti come di vite fallite, dolore delle sofferenze sopportate, timore di un avvenire minaccioso, sete ardente e mai placata di una felicità durevole; sì, è tutto ciò. Ma anche, per molti che non l'hanno capito, aspirazione nascosta a una pace dell'anima, desiderio potente di ritrovare la propria coscienza, sentimento indefinibile di oppressione, bisogno inestinguibile di liberazione. E come se l'umanità incatenata tendesse le braccia verso il cielo da dove verrà il Redentore.

Alcuni di voi forse mi trovano tetro. Sì, lo capisco, tra voi vi sono di quelli che prendono la vita come viene. I cosìddetti buontemponi si divertono, scherzano molto, pretendono di essere allegri e traendo il massimo profitto da questa terra di miseria non hanno affatto fretta di lasciarla.
 
È vero, vi sono due modi di guardare il mondo. Mi accade anche di trovare questa terra bella e giovane; ci sono momenti in cui questa vita mi sembra degna di essere vissuta. Giorni di primavera, in cui il soffio della vita corre per i campi e per i boschi, in cui la linfa sale fin sui rami, le pervinche sbocciano tra i cespugli. Le brine si sono dissolte: come fa bene respirare queste fragranze pervase dalla resina dei pini, dai profumi delle primule e dei lillà. Ci fermiamo, ci distendiamo al margine di un bosco, ascoltiamo i dolci cinguettii che vengono dalle macchie. Tutto è giocondità e celebra a modo suo la felice gioia di vivere...
Sì, ma tutto questo muore. E quando un tale pensiero mi sale nell'anima, addio, la festa finisce.
 
Allora mi assalgono di nuovo tutte le oscure angosce della terra. Esse sopraggiungono come una nebbia nel bel mezzo del mio sogno di primavera e ne spengono uno a uno tutti gli splendori.

Breve durata delle cose di quaggiù. «Che cosa resta di tutto ciò che non è eterno?» (Pascal, "Pensieri"). Non resterà nulla di questa primavera consumata troppo presto dagli ardori dell'estate, di questo mattino pieno di sole che un brusco ritorno di tramontana coprirà di un gelo mortale, di questi fiori troppo belli di cui neppure uno vedrà la prossima stagione, come pure se ne andrà quel vegliardo laggiù sulla soglia della sua casa, un tempo agricoltore infaticabile. Anche noi, bambini ieri, domani vecchi, presto dormiremo nella polvere. Una nuova generazione si leverà sulla terra, con i suoi adulti e i suoi piccoli. E altri, altri ancora, e la morte sempre instancabile falciatrice...
 
Tutto soffre e muore. E nel mattino assolato, delle grida di dolore si alzano da ogni parte. Vengono dalla radura ove qualche rapace si avventa su di un animale tremante; vengono dalla città echi di grida sinistre di bestie che si macellano, di esseri umani che sono uccisi e che uccidono. Quelli che non gridano mai sono forse quelli che soffrono di più.
 
Scappate dal vostro paese. Cambiate continente. Che cosa vedete? Sabbia macchiata di sangue, esecuzioni mostruose, rivoluzioni cruente, massacri, deportazioni in massa, uomini assassinati all'angolo delle strade, sotto la protezIone di qualche organizzazione politica, stragi di ogni genere a vantaggio di qualche ideale che si vuole umanitario, e grida dei giustiziati che salgono dai campi di tortura...
E non c'è proprio bisogno di essere informati di tutti i progetti di distruzione che si preparano nei laboratori segreti, in questa bella mattinata di primavera!
 
La natura stessa si ribella. Quest'Eden ha delle strane rivincite. In pochi secondi gli alberghi di lusso di un nuovo Agadir possono seppellire sotto metri di cemento qualche centinaio di fortunati turisti estivi; laggiù qualche diga aprendosi sommergerà un altro Frejus; qui gli appestati muoiono, vittime innumerevoli di epidemie sconosciute; e poi i cancerosi e i poliomielitici che riempiono le corsie degli ospedali; e più lontano questi scheletri viventi che qualche nuova carestia finisce per esaurire...
Ecco che cos'è la terra. Ecco quel che tu sentiresti, in questa bella mattinata di primavera adagiato sotto il tuo albero, se tu accostassi il tuo orecchio al suolo: su tutte le parti del globo s'odono i passi pesanti della distruzione.
 
Ebbene sì, voglio udire questi rumori di guerra, queste grida, queste lacrime, queste voci lamentevoli, queste urla di collera, queste risate insensate più lamentose degli stessI pianti, perché mi raccontano il dolore senza fine della creazione, i suoi sospiri che salgono fino al cielo.
«Che il tuo regno venga». Gli schernitori possono ben reclamare che venga mantenuta la promessa della sua venuta, dato che dal giorno in cui i progenitori si sono addormentati, tutte le cose continuano nel medesimo stato (2Pietro 3:4): «Che il tuo regno venga». Non ho nient'altro da rispondere, poiché posseggo la promessa di Colui che verrà.
«Che il tuo regno venga». Se tutta la terra elevasse verso il cielo quest'ardente sospiro, credo che il Signore ritornerebbe stasera.
 
N. Hugedé, "Cristo questo sconosciuto" - Edizioni AdV
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